COME UNA FAVOLA
Già indossare la maschera è stato parte essenziale della festa. In un boudoir tappezzato di rosa, una schiera di costumiste affaccendate con gli spilli in bocca mi gira intorno stratificando sfilze di indumenti sopra il mio corpo. Come un imbianchino che rinnova una facciata ed intonaca, sciarba, stende il velo, passa una prima mano di pittura, poi una seconda, ed infine fa due passi indietro per ammirare l’opera, così io vengo prima aiutata ad infilare il “panier”una struttura di vimini e tulle che mi stringe la vita e mi allarga i fianchi alla moda del ‘700, poi una gonna rosa antico, ed infine un pesante abito di damasco i cui pannelli si allargano ai lati, dal corsetto chiuso dietro da un’infinità di lacci che due donne si affannano a stringere fino a farmi mancare il respiro. La direttrice dell’Atelier sentenzia che non ho bisogno della parrucca, i miei capelli mossi possono direttamente reggere delle piume, così passo nelle mani del coiffeur che armeggia dietro il mio capo con fermagli e forcine, ma, secondo me, anche con chiodi martello e mastice, perché le piume resteranno saldamente incollate alla testa nonostante le profonde riverenze fatte in lungo e in largo per Piazza San Marco. Il mio personale tocco di classe è di infilare nella fede un fazzoletto di seta portatomi dalla Cina dal mio babbo quarant’anni fa. Mi sento così a mio agio con questo abito che mi par d’esserci nata. Potrei tranquillamente indossarlo anche al lavoro, se non fosse che la gonna resterebbe incastrata nella bussola della banca.